Anticamente, sia la via Latina che la via Appia Antica uscivano da porta Capena, una porta nelle Mura Repubblicane, oggi scomparsa, che si trovava tra il Circo Massimo e la Passeggiata Archeologica; le due strade formavano quindi un unico tratto fino alla biforcazione ancor oggi esistente a piazza Numa Pompilio, dopo le terme di Caracalla.
Di lì, la via Latina, che la toponomastica ha ribattezzato "via di porta Latina", procede stretta e chiusa da due muraglioni fino a raggiungere, sulla destra e un centinaio di metri prima di porta Latina, l'ingresso del parco pubblico della Villa degli Scipioni, che si estende da via di Porta Latina fino a via di Porta S. Sebastiano, dove si affianca al sepolcro degli Scipioni e al colombario di Pomponio Hylas.
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Sulla sinistra, una stradina conduce alla Basilica di S. Giovanni a Porta Latina. Qui, secondo la tradizione, S. Giovanni Evangelista durante una persecuzione avvenuta sotto l'imperatore Domiziano sarebbe uscito illeso dal supplizio dell'olio bollente che gli salvò la vita.
La prima costruzione risale al V secolo, durante il pontificato di papa Gelasio, ma un primo restauro fu portato alla fine dell'VIII secolo per volontà del papa Adriano I. L'aspetto di basilica romanica risale ad un secondo restauro del XII secolo, è stato ripristinato con il restauro promosso dai Padri Rosminiani (che dal 1938 abitano la chiesa e l'edificio adiacente), dal momento che tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento un altro restauro aveva alterato la fisionomia dell'edificio.
Proprio in quel tempo, durante il pontificato di papa Giovanni XIII (il papa noto per la riforma del calendario, che da lui si chiamerà Gregoriano, e noto anche per aver inaugurato la via Appia Nuova) questo luogo divenne teatro di una singolare vicenda: il 13 agosto 1578, davanti a Porta Latina, i corpi di otto persone furono messi al rogo. Chi fossero questi sfortunati lo sappiamo dai documenti dell'archivio della Confraternita di S. Giovanni Decollato (D. Orano, Liberi pensatori bruciati in Roma, U. Bastogi Editore, Roma 1904): un gruppo eterogeneo di Spagnoli, Portoghesi e un Albanese. Ecco il verbale di uno dei condannati:
Bernardino d'Alfar di Siuiglia
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Il motivo per cui il rogo fu allestito proprio in un posto così fuori mano ce lo rivela il verbale di un altro condannato portoghese:
Marco del quondam Giouanni Pinto di Vienna
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Questi sfortunati personaggi vivevano proprio nella basilica di S. Giovanni a Porta Latina. La loro colpa, che non è riportata nei verbali della Confraternita di S. Giovanni Decollato, è così ricostruita da Ludovico Pastor nella sua monumentale "Storia dei Papi":
Al tempo di Gregorio XIII l'Inquisizione era spesso impegnata con i lapsi ricaduti nel Giudaismo; questi rinnegati, che avevano accettato il Cristianesimo in Spagna e in Portogallo, e che segretamente erano tornati alla loro precedente religione, spesso ottenevano rifugio dal potere dell'Inquisizione in Spagna e Portogallo, e si disperdevano in tutto il nord e il centro Italia. Gregorio XIII inviò lettere sulla questione al Nunzio a Venezia, e a molti dei Principi italiani. Egli mise in guardia per esempio la Repubblica di Genova dal ricevere rifugiati di questa specie, senza scoprire in modo definitivo chi fossero, se potessero produrre certificati di buona condotta, e dove intendessero risiedere; una volta che fossero stati ammessi, non dovevano essere mandati via, in modo che non potessero trovare rifugio tra i miscredenti. Da un'indagine tenuta in Roma nel 1578 risultò che lì i Marrani del Portogallo erano più numerosi di quanto si era pensato, e il 13 agosto di quell'anno non meno di sette furono condannati a morte a Porta Latina. Probabilmente furono soprattutto questi avvenimenti che determinarono il Papa a regolare esattamente le relazioni tra Inquisizione e Giudaismo. |
La colpa appare però ben altra nella testimonianza di Antonio Tiepolo (ambasciatore veneto a Roma tra il 1576 e il 1578), che in un dispaccio al Senato Veneziano del 2 agosto 1578 così riferisce:
Sono stati presi undeci fra Portughesi et Spagnuoli, i quali adunatisi in una chiesa, ch'è vicina a san Giovanni Laterano, facevano alcune lor cerimonie, et con horrenda sceleraggine bruttando il sacrosanto nome di matrimonio, se maritavano l'un con l'altro, congiongendosi insieme, come marito con moglie. Vintisette si trovavano, et più, insieme il più delle volte, ma questa volta non ne hanno potuto coglier più che questi undeci, i quali anderanno al fuoco, et come meritano.
F. Mutinelli, Storia arcana ed aneddotica d'Italia raccontata dai veneti ambasciatori, Venezia 1855 |
A distanza di tre anni, nel marzo 1581, lo scrittore e filosofo francese Michel de Montaigne è a Roma, e ci racconta l'episodio confermando la versione di Antonio Tiepolo:
Rome, (...), 1e 18, (...) Je rancontrais au retour de Saint Pierre un home qui m'avisa plaisamment de deux choses: que les Portugais foisoint leur obédiance la semmene de la Passion, et puis que ce mesme jour la station estoit à Saint Jean Porta Latina, en laquelle église certains Portugais, quelques années y a, estoint entrés en une étrange confrérie. Il s'espousoint masle à masle à la messe, avec mesmes seremonies que nous faisons nos mariages, faisant leur pasques ensamble, lisoint ce mesme évangile des nopces, et puis couchoint et habitoint ensamble. Les esperis romeins disoint que, parce q'en l'autre conjonction de masle et femelle, cete seule circonstance la rand légitime, que ce soit en mariage, il avoit semblé à ces fines jans que cest'autorisée de serémonies et misteres de l'Eglise. Il fut brulé huit ou neuf Portugais de ceste belle secte.
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Tornando da S. Pietro ho incontrato un uomo che mi ha gentilmente informato di due cose: che i Portoghesi avrebbero professato la loro obbedienza durante la settimana della Passione, e anche che in quello stesso giorno la stazione [della via Crucis] sarebbe stata a S. Giovanni a porta Latina, chiesa nella quale certi Portoghesi, qualche anno fa, si erano organizzati in una strana confraternita. Si sposavano tra maschi alla messa, con le stesse cerimonie che noi usiamo per il nostro matrimonio, facevano la comunione insieme, leggevano lo stesso nostro vangelo nuziale e poi dormivano e abitavano insieme. Gli esperti romani dicevano che, poiché il matrimonio è sufficiente a rendere legittimo l'altro tipo di unione, quella tra maschi e femmine, era parso a quegli astuti personaggi che anche la loro unione sarebbe divenuta legittima se consacrata dalle cerimonie e dai riti della Chiesa. Otto o nove Portoghesi di questa bella setta furono mandati al rogo.
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Il cortiletto antistante la chiesa si distingue per la sua raffinatezza: un pozzo del VIII secolo è decorato a disegni, e la trave con il perno per il secchio è sorretta da due colonnine di marmo di epoca imperiale. Raggiungiamo il vestibolo: l'accesso è costituito da cinque archi che poggiano su quattro colonne di granito, di cui tre hanno il capitello ionico, anch'esse di epoca imperiale. Nei muri del vestibolo sono cementati numerosi frammenti di lapidi e sculture.
Entriamo nella chiesa. Anche le colonne dell'interno appartengono all'età imperiale; la loro provenienza "di spoglio" è testimoniata dalla varietà dei materiali: due sono in porfido, due sono scanalate in marmo venato chiaro, le altre sono in granito o sono state riadattate nel XIII secolo con marmi cosmateschi.
Il campanile ha la forma perfetta che risale al XIII - XIV secolo.
Sul lato destro della via Latina c'è l'Oratorio di S. Giovanni in Oleo. Questo sorge nell'esatto luogo del supplizio dell'olio bollente. Si tratta di una piccola cappella a pianta ottagonale, risalente al XV-XVI secolo, che si crede dovuta a Donato Bramante (1444-1514); l'interno sarebbe invece di Francesco Borromini (1599-1667). Sopra uno degli ingressi è scolpito lo stemma del prelato francese Benedetto Adam (XVI sec.), con il seguente motto: "AV PLAISIR DE DIEV".
Oratorio di S. Giovanni in Oleo
Il viaggiatore comune che nei primi secoli dell'Impero procedeva verso Sud incontrava solo una ininterrotta successione di sepolcri e ville suburbane; tuttavia nel corso del III sec. d.C. una serie di crisi economiche, politiche e militari consentirono alle popolazioni germaniche di muoversi quasi indisturbate per l'Impero, mettendo in pericolo perfino la sicurezza di Roma.
Questa situazione costrinse l'imperatore Aureliano (270-275 d.C.) ad intraprendere la costruzione di una nuova cinta muraria, visto che quella vecchia (le Mura Repubblicane) era ormai un rudere, e che la città, dopo mezzo millennio di dominio incontrastato, era cresciuta tutt'intorno.
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Porta Latina, a differenza di porta S. Sebastiano, era già in origine ad un solo grande fornice, e del periodo di Aureliano restano ancora sia la torre semicircolare di destra (guardando la porta) sia la facciata rivestita di travertino.
Durante i lavori di rinforzo promossi dall'imperatore Onorio, il fornice venne rimpicciolito, mentre la porta fu rialzata di un piano nel quale furono aperte le cinque finestrelle ad arco che si vedono ancora oggi.
La seconda torre semicircolare a sinistra guardando porta Latina, in scaglie di selce, è invece della seconda metà del XII secolo.
Porta Latina
Nel 1458 il luogo in cui siamo fu protagonista di una vicenda straordinaria, che viene riportata nella Cronaca del diarista viterbese Niccolò della Tuccia:
Anco in quel tempo fu a Roma una bufala che haveva addosso uno spirito cattivo, et ammazzò tredici persone, tra'quali un vescovo, che stava fuori di porta Latina. Domenica, alli 11 di Giugno, uscirno fuori di detta porta più di 100 balestrieri, e non li poterono far niente; et alli 15 di detto mese uscirno più genti assai con balestre e scoppietti, e ferirno detta bufala in più luoghi, e fummi detto qui in Viterbo da persone degne di fede che la bufala parlò e disse: «Se non mi date al cuore non mi potete uccidere» e così ferita andò nel fiume. |
All'incrocio di via Talamone con via Latina, al di là del muro di recinzione del convento dei Padri Marianisti, si intravedono i resti di alcuni sepolcri, risalenti alla tarda Repubblica e all'inizio dell'Impero; sono allineati uno dopo l'altro in quest'ordine:
Questi sepolcri, che sono solo una piccolissima parte del cimitero originario, furono scoperti nel 1848 durante la costruzione dell'edificio. Il loro stato di conservazione lo si deve alla passione di uno dei membri della congregazione che non solo ha ripulito e rimesso in ordine i sepolcri, ma ha anche costruito le tettoie per ripararli dalla pioggia.
La distruzione del patrimonio archeologico della via Latina è stata così radicale che i primi resti facilmente visibili si incontrano a piazza Galeria, e certo non rendono affatto l'idea di una strada così magnifica.
Nel giardino sono poggiati sul terreno vari blocchi di peperino, che ora sono usati come sedili. Questi blocchi dovevano essere il rivestimento in opera quadrata di un sepolcro a mausoleo (il nucleo in calcestruzzo è appena riconoscibile dietro il canale dell'acquedotto Antoniniano).
Dal lato verso via Cilicia troviamo la base di un sepolcro rettangolare in laterizio del tipo a tempietto del III sec. d.C.; a questo si addossa il brandello di un altro sepolcro in laterizio, di cui si vedono ancora le nicchie con le olle cinerarie.
Il brandello del sepolcro a tempietto
Ma il più importante fra i ruderi rimasti è il lungo muro che si vede al centro della piazza; questo è infatti l'unico tratto superstite fuori le mura dell'acquedotto Antoniniano, che si staccava dall'acquedotto Marcio all'altezza di porta Furba, attraversava la via Appia Antica tramite l'arco di Druso ed alimentava infine le grandiose terme di Caracalla.
L'acquedotto Antoniniano
Di questo acquedotto si vede però solo il muro di sostegno, in calcestruzzo rivestito di laterizio, e la traccia del canale in cui scorreva l'acqua.
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Al n. 7 di piazza Galeria troviamo un interessante edificio industriale, che al piano terra ospita ancora alcune attività artigianali. E' l'ex stabilimento chimico "Socciarelli", a tre piani, costruito tra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo come essiccatoio e conceria di pellami; il tetto e le divisioni interne sono crollati, mentre si conservano i muri perimetrali con grandi finestroni ad arco.
Il sepolcro laterizio detto "Torre dell'Angelo"
Pochi passi più avanti, prima del ponte sulla ferrovia, si incontra un sepolcro rettangolare in laterizio del tipo a tempietto, del II sec. d.C. che è il più interessante tra i resti archeologici visibili in questo primo tratto di strada.
A differenza dei precedenti, di questo sepolcro sono visibili tre piani, il più basso dei quali è seminterrato; l'ingresso, al piano terra, è sul lato verso le mura, mentre il lato sulla strada era utilizzato scenograficamente: al piano superiore si apriva infatti una grande finestra arcuata, nella quale era probabilmente collocata la statua del defunto; ai lati sono ancora visibili due semicolonne, anch'esse in laterizio ma di colore rosso, sulle quali sono i capitelli di stile dorico, le piattabande, la cornice e infine il timpano, anch'esso in laterizio.
Il piano terra, che prendeva luce dalle finestre a feritoia ancora visibili nel retro, presenta alle pareti le nicchie con le olle cinerarie.
I soffitti del piano seminterrato e del piano terra sono costruiti con la tecnica della volta a botte con soffitto a cassettoni, mentre il piano superiore è coperto con un tetto a doppio spiovente.
L'aspetto di un sepolcro a tempietto
Dietro la ringhiera, affacciandoci, vediamo che la tomba è circondata da un "recinto sacro" le cui pareti sono adibite a colombario; il tutto era poi al centro di un vasto insieme di catacombe, i cui cunicoli furono distrutti per costruire la scarpata della ferrovia Roma-Pisa. La scala esterna, che collega la base col piano superiore, fu costruita in un secondo tempo, come si deduce dalla qualità peggiore del mattone.
Il sepolcro laterizio detto "Torre dell'Angelo"
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Nel XIII secolo il sepolcro fu trasformato in fortilizio per il controllo delle comunicazioni lungo la strada; a questo scopo il recinto sacro fu riadattato a scopi difensivi, mentre la tomba venne sopraelevata con una torretta. Per sostenere la torre fu necessario rinforzare la facciata murando la grande finestra antica, e sul muro di chiusura fu probabilmente dipinto l'arcangelo Michele; da qui il nome di "torre dell'Angelo". Un discutibile restauro realizzato negli anni '60 ha però eliminato tutte le parti medievali, ed ha purtroppo alterato anche alcuni elementi architettonici originali della facciata.
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L'incrocio di via Latina con via Correnti non presenta alcun segno antico evidente; tuttavia qui si ha la veduta del lunghissimo rettifilo stradale che porta fino a Grottaferrata, e si può intuire l'imponenza dell'opera compiuta dagli ingegnerri romani di oltre 2000 anni fa.
Nell'alto medioevo la via Latina era ricchissima di monumenti ed era molto utilizzata; uscendo dalle Mura si incontravano, all'altezza del primo miglio, sopra la catacomba di Epimaco la chiesa dei santi Gordiano ed Epimaco, poi sopra la catacomba di Aproniano la chiesa di santa Eugenia, al terzo miglio la basilica di santo Stefano protomartire.
Il fenomeno delle chiese cimiteriali fu comune a tutto il suburbio romano; le catacombe, che dal V secolo avevano cessato di accogliere nuove sepolture, erano meta di pellegrinaggi, e al di sopra furono edificate nel V e VI secolo delle chiesette, che continuarono ad accogliere sepolture per qualche secolo in piccoli cimiteri.
Di questo patrimonio la strada oggi, inglobata dal moderno quartiere Appio Latino, non mostra quasi più nulla. Eppure il sottosuolo nasconde ancora un gran numero di cimiteri sotterranei, costituiti sia da semplici cubicoli, sia da reticoli di gallerie anche su più livelli.
Andando per ordine, poco dopo l'incrocio con via Talamone si incontrano le catacombe di Gordiano ed Epimaco, risalenti al IV sec. d.C. e riscoperte casualmente nel 1933; le gallerie non hanno nulla di artistico, anzi le sepolture intensive ed il riuso dei loculi ne dimostrano la povertà; interessanti sono solo le iscrizioni e la simbologia cristiana. Tra via Numanzia e via Tabarrini vi sono le catacombe attribuite a Tertullino; queste catacombe, mai esplorate a fondo, sono del IV sec. d.C. e non sono decorate; le gallerie sono collegate ad un piccolo ipogeo pagano, noto come ipogeo di Vigna Del Vecchio.
I palazzi di via Mantellini, via Correnti, via Giovio e via Colletta nascondono il reticolo delle catacombe di Aproniano, nate intorno al IV sec. d.C. e famose nella tarda antichità, quando erano visitate da schiere di pellegrini; furono riscoperte solo nel 1937 a causa di una frana. Il complesso si sviluppa su 4 piani, e presenta cubicoli ornati di stucchi e di colonne scolpite nel tufo; le strette gallerie si intersecano tra loro formando uno schema geometrico abbastanza regolare. Aproniano non è né un santo né un personaggio famoso, per cui è probabile che fosse il proprietario del terreno.
In superficie, nella stessa zona, sono stati rinvenuti numerosi resti, probabilmente appartenuti alla Basilica di S. Eugenia che doveva sorgere da queste parti.
Subito dopo, al n. 13 di via Mantellini, si incontra l'ipogeo di Trebio Giusto, rinvenuto nel 1911 durante i lavori di consolidamento di un villino. Il sepolcro è costituito da un cubicolo a pianta perfettamente quadrata (lato di 2,6 m), con tre loculi per parte nelle pareti laterali ed un arcosolio nella parete di fondo; nell'arcosolio è dipinto il defunto seduto su uno sgabello, con le tavolette per scrivere sulle ginocchia ed un libro in mano; un'iscrizione ne rivela il nome: "Trebio Giusto e Horonatia Severina fecero a Trebio Giusto, soprannominato Asello, che visse 21 anni, 7 mesi e 25 giorni". Numerose scene sono dipinte alle pareti; la presenza, tra l'altro, di una figura che ricorda il Buon Pastore, ha portato ad un contrasto tra gli studiosi sul carattere religioso dell'ipogeo, ma le ultime tendenze, che hanno visto nelle pitture solo delle scene di vita reale, lo hanno attribuito a pagani vissuti alla fine del III sec. d.C.
Ipogeo di Trebio Giusto (Archeo)
Adesso puoi proseguire la visita con il secondo miglio della via Latina.
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