Parlare di geologia significa cercare di ricostruire ciò che è avvenuto nel corso di periodi di tempo molto lunghi - milioni di anni - sia al di sotto che sulla superficie della terra. Questa ricerca è più difficile laddove l'uomo, costruendo le città, ha modificato l'ambiente originario appiattendolo e rendendolo quasi irriconoscibile.
La valle della Caffarella offre, anche per questo, motivi di grande interesse; qui infatti è possibile riconoscere alcuni importanti aspetti della geologia di un'area ben pù vasta compresa tra i Colli Albani e la città di Roma.
Proviamo a ripercorrere questa storia comparando l'evoluzione dell'uomo con quella avvenuta nella nostra area. A tal fine dobbiamo immaginare di andare a ritroso nel tempo fino a 4 milioni di anni fa, cioè nel pieno dell'era Pliocenica. E' questa una grandezza temporale enorme per noi che a stento riusciamo ad avere la percezione concreta dell'arco di 100 anni, risalendo con l'esperienza diretta alla generazione dei nostri genitori o dei nostri nonni.
Benché 4 milioni di anni possano sembrare un periodo straordinariamente grande, essi rappresentano meno di un millesimo dell'età della Terra.
Come si presentava la Caffarella un giorno qualsiasi di circa 4 milioni di anni fa? Non era una valle, ma solo una porzione del fondo di un mare, la cui linea di costa si trovava molto più ad Est dell'attuale.
Ricostruzione paleogeografica dell'area romana 4 milioni di anni fa. In tratteggio l'area
rappresentata nella figura successiva
Una parte degli antichi Appennini (la paleocatena appenninica), a causa dell'apertura del Mar Tirreno era sprofondata. Come si vede in figura, questo sprofondamento non era omogeneo: emergevano infatti dal mare alcune isole in corrispondenza dei monti Cornicolani, del monte Soratte, ecc.
In questa immagine ambientale non abbiamo disegnato l'uomo perché ancora non esisteva, anche se in diversi punti dell'Africa era già cominciato il lungo cammino della sua evoluzione.
Gli uomini del tempo erano per così dire dei "primati che camminavano"; avevano infatti molte caratteristiche che ancora li collegavano alle scimmie antropomorfe, ma la loro posizione era già eretta, e le loro mani non servivano più per camminare. A questi primi ominidi gli antropologi hanno dato il nome di Australopitecus afarensis.
Poiché l'uomo non poteva ancora tramandarci la storia geologica di 4 milioni di anni fa, essa si è potuta ricostruire attraverso lo studio delle rocce. Le rocce che raccontano questo lungo periodo di immersione, durato alcuni milioni di anni, sono le argille plioceniche, dette anche argille azzurre o marne vaticane. Queste argille sono ricchissime di fossili microscopici che ci danno informazioni sul loro ambiente di deposizione, caratterizzato da acque non molto profonde e clima temperato.
Anche se si è certi della loro presenza, le argille plioceniche non sono visibili nella valle della Caffarella perché coperte da decine e decine di metri di rocce più recenti; le possiamo però vedere alla base di quelle zone di Roma che si sono in seguito sollevate, come Monte Mario e il Gianicolo-Monte Verde.
Proviamo a ricostruire cosa succedeva 1.500.000 anni fa in una vasta area comprendente anche la Caffarella.
Il mare arretrava lentamente la sua linea di costa, ritirandosi pian piano sempre più ad Ovest. Al suo posto era rimasta una zona collinare con laghi, paludi e fiumi, tra cui l'antico Tevere.
Sezione della Campagna Romana 1,5 milioni di anni fa
Le rocce che testimoniano questo lungo periodo geologico, compreso fra 2 e 1 milione di anni fa, sono costituite da antichi cordoni di dune, argille, sabbie, ghiaie, torbe, ecc., cioè il materiale che si deposita sulla terraferma (quindi di tipo continentale), oppure nella zona di transizione al mare. Benché queste rocce si siano deposte al disopra delle argille plioceniche, anch'esse non sono visibili nella valle della Caffarella perché coperte da altre rocce più recenti.
Nel frattempo l'uomo aveva percorso un lungo cammino evolutivo, e la sua fisionomia di allora ci sarebbe senz'altro familiare. Gli antropologi infatti lo hanno classificato come Homo habilis, ad indicare che già apparteneva al nostro stesso genere.
Traeva la sua origine proprio dagli antichi Australopitechi, ma aveva rispetto a loro una più vasta capacità cranica (circa 800 cc); ciò presupponeva un'intelligenza maggiore dei predecessori ed un uso delle mani sempre più perfezionato.
Il suo luogo di residenza era sempre l'Africa, dove deve aver convissuto con Australopitechi poi estinti: rami secondari di un unico processo evolutivo.
Già da tempo il cammino dell'uomo aveva visto la presenza di una nuova specie: l'Homo erectus.
Questo nostro progenitore era il vero signore del mondo: la sua intelligenza gli aveva consentito di controllare il fuoco, di costruire oggetti sempre più perfezionati, di colonizzare nuove terre (Giava, Cina, il Sud Europa). L'Homo erectus conosceva bene anche il centro-meridione della penisola, come ci viene confermato dal rinvenimento di scheletri e manufatti a Isernia, in località "La Pineta".
Certo che se l'Homo erectus si fosse trovato nella Caffarella di 500.000 anni fa, sicuramente avrebbe preso per lo meno un bello spavento poiché poche decine di chilometri più a Sud-Est c'era un grande vulcano in attività: il Vulcano Laziale, attualmente corrispondente al comprensorio dei Colli Albani.
Sezione della Campagna Romana 250.000 anni fa. La zona tratteggiata rappresenta l'area
della futura città di Roma
La formazione della catena appenninica, che aveva portato all'apertura del bacino del Tirreno, provocò un assottigliamento della crosta terrestre e la conseguente formazione di fratture nelle quali il magma poté risalire fino a raggiungere la superficie. Nell'area laziale, lo stesso fenomento era già avvenuto nei complessi vulcanici dei monti Cimini, del lago di Vico, dei monti Vulsini e dei monti Sabatini.
Per dare un'idea del Vulcano Laziale e di quello che può aver prodotto con la sua trascorsa attività, si pensi che aveva una base di 60 chilometri di diametro ed emise circa 200 chilometri cubi di materiali, che contribuirono, insieme ai prodotti del Vulcano Sabatino (attivo in quello stesso periodo), a sbarrare l'antico corso del Tevere. A causa della formazione di questa diga naturale il fiume formò un grande lago di sbarramento, e solo in seguito si aprì un nuovo percorso fra i materiali emessi dai due vulcani.
Il Vulcano Laziale alternava periodi di violenta attività eruttiva a modeste fasi effusive (emissioni di lava). Le esplosioni, prodotte dalla presenza di grandi quantità di anidride carbonica, le cui enormi pressioni frantumavano la crosta terrestre, trascinarono fino a 10.000-15.000 metri di quota chilometri cubi di un'emulsione assai densa di gas e polveri ad alta temperatura (700-800 gradi centigradi): un vero e proprio "spray" naturale, incandescente.
All'esaurirsi della spinta iniziale le nubi precipitarono sulla terra come una valanga di fango densissimo, distendendosi tutto attorno al luogo di emissione. Queste valanghe di materiale alla temperatura di 400-500 gradi centigradi, chiamate colate piroclastiche, si dispersero muovendosi a velocità anche di 150 chilometri l'ora, distruggendo al loro passaggio qualsiasi forma di vita.
I prodotti emessi dal vulcano in successive fasi esplosive si deposero sopra i precedenti depositi continentali e di transizione, dando origine a quelle formazioni comunemente note come tufi e pozzolane.
La storia geologica della Caffarella è quindi intimamente connessa con quella del Vulcano Laziale che vi riversò in più riprese i suoi prodotti; si può anzi dire che ci troviamo alle pendici del vulcano, sopra 60-70 metri di materiale espulso. Seguiamo pertanto la sua evoluzione.
Dopo la formazione del vulcano si ebbe un periodo di relativa calma, durante il quale crollò il cratere principale lasciando al suo posto una vasta cavità circolare larga 15 chilometri, detta per la sua forma "caldera" (vocabolo spagnolo che significa pentolone), di cui oggi rimangono solo alcune porzioni dell'antico margine (monte Tuscolo e monte Artemisio).
La caldera del Vulcano Laziale
Come si è detto il vulcano ebbe anche fasi effusive; una di queste, databile 270.000 anni fa, fu di grosse dimensioni (colata di 7-8 metri di spessore) e percorse parecchi chilometri prima di fermarsi, tanto da lambire uno dei fianchi dell'attuale Caffarella.
I geologi chiamano questa emissione con il nome di "colata di Capo di Bove" in quanto essa si arresta nei pressi della tomba di Cecilia Metella (dove sono presenti dei fregi che raffigurano delle teste di bue), ed è proprio lì che la via Appia Antica sale sul fronte della colata con una brusca pendenza. Questa lava, ricca di potassio, è detta leucitite. Alla base della tomba di Cecilia Metella se ne può osservare, insieme ad un piccolo affioramento, anche l'utilizzo fatto dall'uomo per pavimentare sia questa che altre strade romane.
Fra questi periodi di intensa attività del Vulcano Laziale trascorsero in alcuni casi anche migliaia di anni. Questi lunghi periodi di tempo favorirono la colonizzazione di piante ed animali, che ripopolarono un ambiente profondamente cambiato dalle catastrofi naturali.
Successivamente, proprio all'interno della caldera Tuscolano-Artemisia, si formò un nuovo vulcano più piccolo, l'attuale monte Cavo.
La nascita di monte Cavo
L'ultima fase del Vulcano Laziale ebbe inizio quando nuovo magma provò ad uscire dal condotto vulcanico; questo magma, trovando le vie di sfogo ostruite da un tappo di vecchia lava consolidata, dovette cercarsi nuove strade, incontrando nel suo percorso grandi quantità di acqua sotterranea che vaporizzando aumentò di volume e, non trovando sfogo all'esterno, provocò numerose esplosioni (esplosioni freato-magmatiche, fig. 9): il risultato fu la distruzione di parte del cratere con l'apertura del fianco Sud-Ovest. Ancora oggi è possibile osservare le depressioni di Ariccia, del lago di Nemi e del lago di Albano, come significativa testimonianza dell'enorme energia liberata dal vulcano.
L'ultima fase del Vulcano Laziale
Il materiale vulcanico prodotto da queste ultime esplosioni, conosciuto con il nome di Peperino, non raggiunse la Caffarella.
Il Vulcano Laziale, pur non essendo ancora del tutto spento (il 12 giugno 1995 un terremoto ha raggiunto i 3,9 gradi della scala Richter), con quest'ultima fase conclude il periodo di maggiore attività che, insieme al vulcano Sabatino, Vicano e Vulsino, aveva ridisegnato la geografia dell'area laziale.
In quest'ultimo periodo molto probabilmente l'uomo frequentava la Caffarella; alcuni reperti fossili rinvenuti nei pressi della località "Saccopastore", l'attuale quartiere di Pietralata, sono la straordinaria dimostrazione della somiglianza con noi di quest'uomo, solo un po' più basso, tozzo e muscoloso.
Gli esperti gli hanno dato un'età di circa 80.000 anni e lo hanno classificato come Homo neanderthalensis, molto simile alla nostra stessa specie (il moderno Homo sapiens sapiens).
Alcuni paleoantropologi si sono spinti anche oltre, ipotizzando che l'uomo di Neanderthal non si sia estinto ma, in seguito ad un processo di assoggettamento, integrazione ed incrocio, sia stato anch'esso un nostro diretto progenitore, tanto che alcuni di noi possiederebbero ancora alcune sue tipiche caratteristiche, come quella di una più rilevante escrescenza occipitale (osso posto alla base posteriore del cranio). Questa suggestiva ipotesi non ha trovato però nessuna certezza scientifica.
Possiamo immaginare che la Caffarella fosse, a quei tempi, ricoperta da estese foreste in contiguità con i boschi alle pendici del vulcano. Attualmente possiamo conoscere la vegetazione del passato analizzando i pollini che, in determinate condizioni (ambienti fortemente acidi, torbiere, sedimenti palustri con poco ossigeno), subiscono un processo di fossilizzazione. Intorno alla città di Roma sono stati rinvenuti i pollini fossilizzati di querce caducifoglie, carpini, aceri, faggi e noccioli che confermano la presenza di un bosco misto simile a quello che oggi è possibile osservare a quote più elevate nell'Italia centrale; perciò faceva sicuramente più freddo rispetto a oggi.
Il nostro progenitore doveva perciò coprirsi con le pellicce degli animali che riusciva ad uccidere, condividendo il territorio insieme ai grandi mammiferi quali l'alce, il mammut, l'ippopotamo, l'orso delle caverne, il bue, ecc. Di questi mammiferi di clima freddo, in gran parte estinti dopo il periodo glaciale, rimangono imponenti testimonianze fossili, scoperte in vari punti dell'area di Roma, come ad esempio a Ponte Galeria, nei pressi di Fiumicino.
Il nostro antico antenato sopravviveva dunque durante l'ultima era glaciale (glaciazione di Würm, da 100.000 a 10.000 anni fa circa). Un abbassamento della temperatura media di pochi gradi immobilizza sui continenti grandi quantità di acqua allo stato solido in estese superfici ghiacciate, di conseguenza in quell'epoca tutti i fiumi diminuirono la loro portata d'acqua al mare, che non potendo compensare con acqua fluviale quella perduta per evaporazione, diminuì di livello.
Questo abbassamento fu lento ma cospicuo, arrivando a più di 100 metri, tale che aumentò il dislivello fra le sorgenti e le foci dei fiumi e come conseguenza i fiumi iniziarono un'intensa opera di scavo del proprio alveo.
Questa maggiore capacità erosiva interessò anche l'antico tracciato del fiume Almone, uno dei corsi d'acqua che scendono a raggiera dai Colli Albani, determinando una profonda erosione delle piroclastiti del vulcano.
Il canyon durante la glaciazione di Würm della Caffarella
La valle della Caffarella, durante la glaciazione di Würm, possedeva una forma diversa dall'attuale: ripidi versanti di uno stretto "canyon" del quale il fiume occupava il fondo; pertanto il dislivello della valle doveva essere alcune decine di metri superiore all'attuale.
Circa 15.000-10.000 anni fa ebbe fine la glaciazione di Würm e, in conseguenza del lento innalzamento del livello del mare, tutti i fiumi italiani, compreso l'Almone, rallentarono la loro corsa e cominciarono a deporre i loro sedimenti.
L'area di Roma prima dell'intervento dell'uomo
Colmata la valle il nostro fiume iniziò un'attività di erosione laterale della piana alluvionale; si formarono dei meandri che allargarono i versanti della valle così come oggi li possiamo vedere. La distanza tra i versanti non è però spiegabile con il fiumiciattolo che vediamo oggi, ma solo pensando a un clima post-glaciale, più freddo e piovoso di quello attuale.
Già 5.000 anni fa i pollini indicano però un clima più caldo, con ambienti dominati da querce, e la Caffarella ha assunto l'aspetto che conosciamo; il faggio sopravvisse però fino all'età storica, tant'è che se ne trova testimonianza nell'antico nome latino del Fagutal, con cui viene localizzata una parte dell'Esquilino popolata da questa specie vegetale.
E qui avviene un fenomeno unico in Europa, dovuto probabilmente alla particolare morfologia di questa vasta area attorno Roma, comprendente anche la valle della Caffarella. In quasi tutta Europa, l'analisi dei pollini del periodo intorno al 3.000 a.C. mostra uno strato di carbone; siamo infatti nel Neolitico, e l'uomo comincia a coltivare cereali, e per ottenere superfici coltivabili in un ambiente prevalentemente forestale l'unico strumento disponibile era il fuoco. Le analisi dei pollini testimoniano l'incendio di enormi estensioni sia in Francia che in Germania, ma non qui a Roma, dove il clima più caldo avrebbe dovuto persino favorirlo; questa anomalia si spiega supponendo che, prima dell'avvento della civiltà italica, non siano esistite foreste compatte, ma boschi intervallati da paludi, valli e radure, con ambienti dalla vegetazione cespugliosa che l'uomo ha potuto coltivare a poco a poco. La foresta è stata sì eliminata, ma non con enormi incendi, bensì con un processo lento.
Con la presenza di meandri e paludi nel terrazzo alluvionale del fiume, la valle rappresentava però anche una barriera naturale alle comunicazioni verso il sud della penisola. Consideriamo infatti le difficoltà incontrate da chi avesse voluto superare una valle assai larga, paludosa e quindi sicuramente malarica. All'opera dell'uomo si deve quindi l'ulteriore modificazione della valle con l'irregimentazione delle acque attraverso lo scavo di un alveo artificiale per il fiume e per le marrane, e la creazione anche di nuove aree agricole.
L'azione antropica si manifestò inoltre sui fianchi della valle, in quanto la Caffarella fu utilizzata come cava di materiali da costruzione. Furono estratti il tufo, tagliato in blocchetti per l'attività edilizia, e la pozzolana, utilizzata insieme alla calce, come legante. Lo testimoniano sia le catacombe di Pretestato di epoca romana, che le numerose grotte aperte per estrarre il materiale con cui fu costruita la Roma umbertina.
Alcune di queste grotte sono state utilizzate fino agli ultimi anni del secolo scorso come fungaie e a loro si deve l'edificazione di quelle autentiche colline artificiali costituite dall'accumulo progressivo delle lettiere dei funghi.
Anche nella valle della Caffarella quindi le attività dell'uomo hanno operato in breve tempo la radicale modificazione di un ambiente creatosi in milioni di anni di attività geologica: significativo lo scempio provocato dall'accumulo di materiale di risulta proveniente dai cantieri edili e dallo scavo della metropolitana.
Malgrado l'opera dell'uomo abbia prodotto i suoi effetti negativi, nella Caffarella si possono ancora riconoscere gli elementi essenziali delle rocce di Roma, costituite da un ampio spessore superficiale di piroclastiti (tufi e pozzolane), la cui differente coesione ha determinato un'erosione diversa dei vari depositi succedutisi nel tempo. Esaminiamoli in dettaglio nel versante destro del fiume, più precisamente ponendoci in un punto qualsiasi lungo la strada bianca alberata a bagolari, dando le spalle ai Castelli Romani.
Spaccato della valle della Caffarella
Alla base della valle, scavate nelle piroclastiti, troviamo delle gallerie per l'estrazione del tufo, diventate poi fungaie fino alla fine degli anni '90. Queste piroclastiti sono quelle poste più in basso e, essendosi deposte prima, sono le più antiche visibili nella valle della Caffarella. In effetti esse rappresentano però la II colata piroclastica emessa dal Vulcano Laziale (circa 457.000 anni fa) e vengono comunemente indicate come "Pozzolane rosse". Esiste anche una piroclastite emessa in un periodo ancora precedente (tra 561.000 e 528.000 anni fa): è la I colata, chiamata a volte "Tufi pisolitici", che non è visibile in Caffarella se non effettuando appositi carotaggi.
Le cave di pozzolana
(per gentile concessione di Marco Placidi, c/o Roma sotterranea)
Le Pozzolane rosse sono poco coerenti e quindi sono state facilmente attaccate dall'erosione; lo dimostra il fatto che la pendenza della base del versante è più dolce rispetto a quella della parte più elevata.
Al di sopra delle Pozzolane rosse si incontra lo spesso banco di tufo della III colata piroclastica. Facendo però attenzione si riconosce anche, in mezzo alle due colate, uno strato di spessore variabile che in certi punti ha l'aspetto di pozzolane nere e in altri di conglomerato giallo; si tratta di un deposito lacustre di materiali vulcanici determinatosi nel lungo periodo di tempo intercorso tra la II e la III colata piroclastica (probabilmente in quel periodo esisteva una vasta zona allagata simile ad una palude).
La III colata piroclastica (357.000-355.000 anni fa) è anche nota come Tufo litoide lionato, per il caratteristico colore fulvo che ricorda quello della criniera del leone. L'aggettivo litoide ci conferma la maggiore compattezza di questo deposito; questo tufo è utilizzato come ottimo materiale edile perché si taglia facilmente ed in seguito indurisce all'aria.
Sopra il tufo litoide lionato c'è il piccolo spessore del "Tufo di Villa Senni" o "Tufo ad occhio di pesce" (351.000 anni fa), per la presenza di cristalli di leucite; essa è un felspatoide di alluminio e potassio di colore giallo miele pallido, di grande importanza per la genesi del suolo del Lazio.
I cristalli di leucite sono spesso i responsabili delle eruzioni vulcaniche, infatti quando il magma (che è una soluzione di numerosi minerali) scende di temperatura e quindi perde energia, i minerali cominciano a solidificare mano a mano che la temperatura scende al di sotto del loro punto di fusione. Quando la temperatura si abbassa al di sotto di 630-640 °C si formano i cristalli di leucite, la cui struttura geometrica allo stato solido occupa un volume maggiore rispetto allo stato liquido. In questo modo viene sottratto dello spazio al gas disciolto, e quindi il magma che si raffredda aumenta contemporaneamente di pressione; se la pressione supera quella delle rocce superiori, avviene un'eruzione anche violenta. Se quindi vediamo una roccia vulcanica (ad esempio la lava solidificata) con all'interno i cristalli di leucite, sappiamo che il materiale è fuoriuscito a temperatura inferiore ai 630-640 °C.
Quando la temperatura scende sotto i 120 °C la leucite cambia nuovamente struttura e il colore diventa biancastro (da cui il nome); il cristallo si frattura a livello microscopico e diventa anche meno resistente all'aggressione degli agenti atmosferici. Se però guardiamo con attenzione, possiamo riconoscere qualche cristallo con la struttura geometrica intatta, la cui superficie riflette la luce.
Anche il Tufo di Villa Senni è un tufo litoide, infatti l'erosione lo ha fratturato distaccandone i blocchi, conferendogli la morfologia di una parete quasi verticale;
La separazione tra questa piroclastite e il Tufo litoide lionato è riconoscibile per uno strato di quasi un metro di spessore di materiale poco coerente, chiamato "Pozzolanelle grigie".
La divisione tra la III e la IV colata piroclastica
La forma piatta della parte più elevata della valle è una tipica caratteristica morfologica dell'area di Roma. Le piroclastiti vengono infatti quasi spianate dall'erosione, ed al più formano superfici leggermente bombate; non si può quindi parlare di veri spartiacque, ma solo di ampie distese, dette interfluvi, che separano i corsi d'acqua.
Anche se ricca di sali di sodio e potassio, questa piroclastite è così compatta da originare un suolo di limitato spessore. Si forma quindi nella parte più superficiale un vero e proprio "cappellaccio" duro. Ma le volte delle cave aperte nel Tufo lionato, costituite solo dal breve spessore del Tufo di Villa Senni, crollano facilmente e quindi, frantumato il cappellaccio, la vegetazione arborea cresce rigogliosa nelle cavità imbutiformi.
Ultime in ordine di tempo sono l'azione erosiva del fiume ed il deposito di sedimenti alluvionali (argille, limi, ecc.), assai ricchi di sostanze nutritive per il terreno.
Questi sedimenti sono costituiti dalle rocce strappate dal fiume lungo il suo percorso e sottoposte all'azione meccanica (erosione, trasporto e deposito) e chimica (solubilizzazione) da parte dell'Almone.
Nel capitolo precedente abbiamo parlato di suolo. Ma cos'è il suolo?
Il suolo è stato giustamente definito come "il ponte tra il mondo vivente e quello inanimato". Tutti gli esseri viventi hanno bisogno per vivere di una dozzina di elementi chimici che si trovano in quasi tutte le rocce della superficie terrestre. Però per poter essere assimilati questi elementi devono venire modificati dall'ambiente.
Quando una roccia raggiunge la superficie terrestre subito viene attaccata da quel laboratorio chimico-fisico che è l'atmosfera: la pioggia la idrata, l'ossigeno la ossida, il sole la dilata, il freddo la contrae, il vento la leviga ecc..
Tutte le rocce sono ricoperte da uno strato superficiale di frammenti minerali alterati dall'opera dell'atmosfera. Questa alterazione si chiama "regolite"; una roccia manifesta la sua origine solo se la si spacca, perché in superficie la regolite ne maschera l'identità.
Non dobbiamo confondere la regolite con il suolo. Questo infatti è un insieme di sostanze organiche e inorganiche, di acqua e aria, che consente l'attecchimento delle piante e ne favorisce la crescita.
Benché le singole percentuali possano variare anche molto, il suolo di buona qualità è in genere così formato: metà del volume è costituito da frammenti di minerali (regolite) e humus; l'altra metà è costituita da pori pieni di acqua e aria.
L'humus è una sostanza organica costituita dai resti decomposti di animali e piante.
Come si forma l'humus? Si tratta di un fenomeno complesso; ad esempio, l'humus proveniente dalle foglie si forma a partire dallo strato di foglie cadute dagli alberi, che in autunno con le piogge viene attaccato da alghe, funghi, batteri, invertebrati (lumache ecc.); il materiale così formato viene quindi rimescolato dai lombrichi, i quali, ingerendo il terreno, trasportano in superficie le particelle sepolte e viceversa.
In tutto questo processo l'energia solare, immagazzinata nelle foglie grazie alla fotosintesi, viene ceduta agli esseri viventi, i quali, sia con gli escrementi che con la loro morte, trasferiscono al suolo le sostanze indispensabili per nuove catene biologiche.
Per ottenere l'accumulo di un centimetro di suolo sono necessari circa venti anni; quando però il terreno si trova a subire l'azione distruttiva dell'uomo (incendi, disboscamenti ecc.), pochi minuti di pioggia battente bastano per rovinare irreparabilmente il processo compiuto dalla natura. Al contrario, lasciando crescere qualche albero e siepe il suolo viene naturalmente trattenuto, senza alcun danno per l'agricoltura.
Osserviamo il pendio di fronte al Bosco Sacro dopo una giornata di pioggia; l'estirpazione della vegetazione e una poco accorta aratura del terreno fanno sì che il suolo, prima eroso e poi trascinato dall'acqua piovana, precipiti nel fiume Almone, e di lì finisca nel mare per non ritornare mai più.
Osserviamo la sezione della Caffarella. Con il termine di falda acquifera si intende quella zona di terreno dove tutti i pori delle rocce sono occupati dall'acqua.
Quando sulla spiaggia del mare scaviamo una buca e incontriamo l'acqua abbiamo intercettato la falda acquifera.
La falda si forma con l'infiltrazione delle acque piovane che scendono lentamente sotto terra dai rilievi fino al mare; la velocità delle acque è bassissima, solo alcuni centimetri al giorno.
La figura rappresenta il fiume come l'emergenza superficiale della falda acquifera. Ridotto a collettore fognario, il fiume trasmette i suoi inquinanti alla falda e alle sorgenti che ne scaturiscono.
Le sorgenti della Caffarella si trovano dove le più antiche piroclastiti del Vulcano Laziale si incontrano con i più recenti sedimenti portati dal fiume, costituiti prevalentemente da limo e argilla. L'acqua di falda si muove senza problemi tra le piroclastiti, ma trova una zona impermeabile quando incontra i sedimenti fluviali.
Questo sbarramento fa accumulare l'acqua, che trabocca all'esterno lungo la linea di contatto fra depositi di Pozzolane rosse (II colata piroclastica) e Tufo litoide lionato (III colata piroclastica).
Almeno 10 sono le sorgenti da noi censite e riportate sulla carta, ma forse altrettante sono state interrate dall'uomo.
L'acqua di queste sorgenti è mediominerale e leggermente acidula: è la vera acqua di Roma, diversamente da quella delle nostre case che proviene invece dall'Appennino centrale.
Purtroppo l'analisi dei campioni prelevati alle sorgenti ha evidenziato la presenza di colibatteri e streptococchi; essi confermano un inquinamento della falda e non rendono potabili le acque.
A determinare l'inquinamento della falda acquifera nella Caffarella concorrono tre fattori: i pozzi neri, le discariche delle fungaie e il fiume Almone.
Quasi nessuna delle abitazioni presenti in Caffarella è allacciata al collettore fognario della città, pertanto o sono stati costruiti dei pozzi neri, o si è scaricato direttamente nel fiume (a volte addirittura con l'autorizzazione dell'amministrazione comunale).
Le fungaie scaricavano periodicamente il materiale organico che costituisce le lettiere direttamente all'aperto, costruendo autentiche piccole colline. Gli strati superiori di questi sedimenti, con il loro peso, spremevano gli strati inferiori, che emettevano un liquido nerastro, ricco di sostanze azotate, che si è infiltrato nel terreno.
Il primato come fattore di inquinamento della falda spetta però al fiume Almone.
L'Almone, sacro ai Romani, è oggi completamente dimenticato nel nome e ridotto al ruolo di collettore degli scarichi di alcuni comuni dei Castelli Romani (sono stati contati un milione di coliformi fecali in un litro d'acqua).
Il fiume Almone nasce sotto monte Cavo a circa 400 m s.l.m., e dopo aver percorso 22 km raggiunge la via Ostiense (presso il Gazometro), alla quota di 18 m s.l.m.
In via Cristoforo Colombo, durante i lavori di costruzione della strada, fu rinvenuta una cisterna romana, restaurata nel 1992, che oggi spicca sul lato destro della via. La cisterna probabilmente era collegata al fiume Almone che passava da quelle parti prima di gettarsi nel Tevere; oggi però le acque sono così inquinate che sono state convogliate nel collettore che conduce direttamente al depuratore di Roma Sud.
Eppure non tutto è perduto; la sistemazione del collettore fognario che passa al centro della valle, la bonifica delle discariche, la chiusura delle fungaie possono nel tempo migliorare la qualità delle acque della Caffarella, e già oggi i due canali laterali esprimono una buona potenzialità di recupero degli ambienti umidi, meritando l'inserimento nella lista europea dei siti naturali di importanza regionale.
La storia geologica della Caffarella è tutta qui; salvaguardare la valle è come tenere una finestra sempre aperta sulla geologia dell'area romana.
Rivolgiamo un sincero ringraziamento al professor Maurizio Parotto (Dipartimento di Scienze Geologiche della III Università di Roma) per averci fornito i disegni sulle ricostruzioni paleoambientali di Roma, per la costante collaborazione e per il continuo sostegno al lavoro del Comitato.
Adesso puoi percorrere l'itinerario naturalistico nella valle della Caffarella partendo dall'introduzione.
Per commenti e osservazioni potete contattarci via e-mail c/o:
caffarella@romacivica.net
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