Come ha ricordato Roberto Federici, entrambi abbiamo lavorato nel Laboratorio Didattico sulla geologia di Roma, dove uno dei temi affrontati è stato la Caffarella, sulla quale abbiamo realizzato delle tesi sugli aspetti geologici.
Nel 1994 è stato inoltre pubblicato, in una collaborazione tra colleghi di Roma I e Roma III, uno studio di itinerari geologici nel Lazio.
L'obiettivo era sensibilizzare chiunque fosse interessato ai problemi dell'ambiente in senso più ampio di quanto normalmente si intenda: non soltanto quindi animali e piante, amiche silenziose dell'uomo, ma anche il contenitore di tutto questo, la parte fisica dell'ambiente troppo spesso ignorata.
Molto spesso, chi parla dell'ambiente in senso fisico si riferisce a vulcani, a terremoti, a qualcosa quindi di catastrofico; tutt'al più ci si può riferire al paesaggio, limitandosi ad alcuni cenni sulla sua natura e origine.
In realtà l'ambiente è qualcosa che comprende prima di tutto un aspetto fisico, o chimico-fisico se volete, inteso come la parte solida del nostro pianeta, sulla quale e con la quale interagiscono in maniera fortissima l'aspetto biologico (biosfera), l'aspetto idrico (idrosfera) e l'atmosfera, sistemi strettamente integrati tra loro.
Stiamo parlando quindi dell'aspetto litologico, cioè quello che riguarda le rocce, il suolo su cui ci appoggiamo e le forme del suolo, che dell'ambiente sono parte integrante.
Il nostro volume, attraverso 14 itinerari geologici nel Lazio da percorrere a piedi, in macchina o in qualsiasi altro modo, è indirizzato proprio a sensibilizzare su questo aspetto.
Come esempio, girando per Roma con un po' di attenzione possiamo ricostruirne facilmente la storia, riconoscendo i passi attraverso i quali Roma è diventata quello che è oggi. Così dal punto di vista per esempio urbanistico, sappiamo distinguere la Roma umbertina, il Barocco, la Roma medievale, la Roma dei Cesari.
Per la geologia è la stessa cosa, anche se è meno facile scoprirne le tracce perché in genere l'occhio non è abituato, eppure abbiamo una storia lunghissima da ricostruire, precedente non solo alla storia dell'uomo, ma anche alla preistoria ed addirittura alla storia biologica,.
Anche a Roma si possono trovare le tracce della nostra storia geologica, ed è per questo che abbiamo scelto di dedicare uno dei 14 itinerari appositamente alla nostra città.
Non è facile fare geologia dentro Roma, perché le costruzioni hanno coperto quasi tutto, e quello che deve vedere il geologo è proprio il suolo, la sua forma e le rocce che lo costituiscono.
Le costruzioni non solo hanno nascosto le rocce, ma hanno ampiamente cambiato la morfologia di Roma.
Pensiamo a via Nazionale, che era in origine una valle piuttosto incisa, ma adesso la valle non si riconosce più, colmata di riporti e interventi dell'uomo, sottoposta a modificazioni continue.
Ma l'ambiente fisico è proprio questo. Troppo spesso l'ambiente viene confuso con il paesaggio, definizione molto rischiosa perché confusa con uno scenario teatrale, immobile, fisso; questo è quanto di più lontano dalla realtà si possa pensare.
Il nostro pianeta non è un qualcosa di creato magari a un certo momento, e poi ferma lì con noi che ci viviamo dentro; è viceversa il frutto di una lunga evoluzione, anzi un passo di una continua evoluzione che ha tempi più lunghi e ritmi diversi se confrontati con i nostri, e che noi magari non riusciamo a cogliere che in maniera distratta.
Naturalmente non siamo soltanto noi a produrre trasformazioni o subirle, bensì l'intero pianeta è immerso in una continua evoluzione.
Il paesaggio non ha senso come entità assoluta, e il modo in cui la Terra si presenta oggi sarà diverso da quello futuro ed è diverso da quello passato.
Tutto questo può diventare nostro patrimonio normale; bisogna però avere la pazienza di cercare oggetti particolari, che si possono vedere a patto di essere appunto abituarti a vederli.
L'itinerario dedicato alla geologia di Roma si chiudeva con un auspicio.
A Roma esistono luoghi (sono piccole finestrelle) in cui riconosciamo le tracce di quando c'era il mare, di quando c'erano fiumi, di quando c'erano vulcani.
Una grande finestra dentro Roma è proprio la valle della Caffarella, che speravamo potesse diventare un parco che sia anche l'occasione non soltanto di conservazione di certi aspetti, ma anche di spunto per questo tipo di approccio all'ambiente.
Potete quindi immaginare con quale piacere vedo che ciò che sei o sette anni fa era ancora ipotesi sta diventando qualcosa di più concreto.
Vorrei quindi brevemente raccontare per la seconda volta la storia geologica della Caffarella, attraverso tre serie di immagini, una per ricostruire la storia della Campagna Romana (di cui la Caffarella è parte), un'altra per ritagliare da questa storia una finestra dedicata al grande vulcano che abbiamo qui vicino, il vulcano dei Colli Albani, e la terza per vedere cosa di tutto questo si riconosce nella Caffarella, e perché è importante che riusciamo ad avere questo parco.
fig. 1: 4 schemi
La storia parte lontanissimo, almeno 250 milioni di anni fa.
Questi schemi sono come spicchi tagliati nella crosta terrestre, in modo da avere in superficie il paesaggio e scendendo quello che c'è in profondità.
250 milioni di anni fa esisteva un solo grande mare, chiamato Tetide, limitato a Sud dalla costa africana, simile a quella attuale, mentre a Nord era limitato dall'Eurasia; l'Europa era ancora priva di tutta l'Italia che a quell'epoca non esisteva.
La fig. B a destra in alto raffigura la costa africana; si vede il fondo marino, nel quale si stanno accumulando deposizioni che si trasformeranno in quelle normalissime rocce (calcare, argille, sabbie) che oggi costituiscono l'Appennino; quindi il nostro Appennino è nato da qualcosa che si è deposto al largo dell'Africa, tra 250 e 50 milioni di anni fa.
La fig. C mostra come dopo un lunghissimo periodo di accumulo di rocce, con spessori anche di migliaia di metri, il fondo marino ha cominciato ad agitarsi; l'Africa ha cominciato a dirigersi contro l'Eurasia, lo spazio tra le coste è diminuito e il mare si è schiacciato, la crosta si è deformata e il materiale fino allora sommerso ha cominciato a emergere in superficie.
Nella fig. D in basso le rocce formatesi nel fondo del mare sono finalmente emerse, e sono i monti Lepini, Prenestini, Simbruini e il resto dell'Appennino.
Osserviamo il margine tirrenico. Nella figura vediamo, con i nomi attuali, la situazione com'era 5 milioni di anni fa. La storia (geologica) della Campagna Romana ha inizio ora, e corrisponde agli ultimi 5 milioni di anni
L'Appennino appena emerso è sprofondato verso Ovest, formando quello che oggi è il mare Tirreno.
Dal punto di vista geologico il Tirreno è in effetti un mare giovanissimo, di appena 5 milioni di anni (oggi si sta ancora approfondendo e allargando), e lo sprofondamento ha lasciato i monti Sabini attuali, il monte Gennaro, il monte Morra, alle cui falde ancor oggi si vedono molto bene le tracce della costa, o linea di riva.
Vicino Palombara, Moricone, Fara Sabina si incontra infatti una fascia rocciosa crivellata di buchi: è l'antica linea di riva, le cui rocce sono bucherellate dai litodomi, conchiglie che scavano la roccia sulla riva del mare; sono fossili di 5 milioni di anni fa.
Da quel mare sbucavano fuori delle isole: i monti Cornicolani, vicino Guidonia, il monte Soratte.
In figura è indicata anche la posizione corrispondente alla città di Roma.
fig. 3: la fornace Veschi sotto via Baldo degli Ubaldi
Questa immagine, che in un certo senso appartiene al passato, rappresenta un'occasione perduta di conservare un bene prezioso.
E' la fornace di via Baldo degli Ubaldi; le rocce che si vedono sul retro, sotto un po' grigie, sopra un po' giallastre, sono i depositi del mare di cui parlavamo; il mare depose all'inizio una gran quantità di argille, poi si è ritirato, è avanzato un'altra volta e ha deposto sabbia, e ora le argille sono piene zeppe di fossili.
L'immagine è conosciuta dai geologi di tutto il mondo grazie a un congresso internazionale di geologia del 1956 centrato sulla storia "recente" che, dal punto di vista geologico, ha a Roma delle evidenze particolarmente belle.
O meglio "erano" belle, ma come al solito "nemo propheta in patria": questo piccolo affioramento, nonostante i tentativi di salvarlo, è stato disastrato completamente dalla ferrovia Roma-Pisa, che per riempire una discarica lo ha completamente coperto, rendendo ormai irrecuperabile una testimonianza pressoché unica delle vicende che abbiamo descritto. Tutto ciò grazie alla totale mancanza di sensibilità di chi poteva intervenire.
fig. 4: Lazio p. 232 fig. 9.2, Spiccioli di Natura p. 25 fig. 3
Nel rettangolo tratteggiato ingrandito è l'aspetto di allora della Campagna Romana; monte Gennaro, i Prenestini, i Sabini sono ormai ampiamente emersi.
Vediamo una vasta fascia costiera, molto più ampia di quella attuale, e i primi fiumi che scendono dall'Appennino; al centro ho indicato l'antico Tevere (il Paleotevere), che scendeva più o meno parallelamente all'Appennino e poi si gettava nel mare; abbiamo trovato le tracce dell'antica foce del Tevere sotto Anzio, dove ghiaie e altri materiali trasportati dal fiume provengono da rocce che si trovano soltanto nella Sabina settentrionale e in Umbria. Quindi il percorso dell'antico Tevere finiva in quelle zone; poi vedremo perché ha cambiato percorso.
Quella specie di salsicciotto allungato grigio è monte Mario, che in questa fase si è sollevato. Sono rocce recenti, giovani, e chi sale da piazzale Clodio verso monte Mario trova lungo la strada argille e sabbie con mucchi di fossili, e sono appunto le argille viste in precedenza che sono state sollevate in questo periodo. Questo ostacolo costringe il Tevere a camminare tra l'Appennino e la costa, anziché dirigersi direttamente verso il mare.
fig. 5: foto di depositi
Qui vediamo sabbie, ghiaie, torbe, che sono i depositi formatisi in quel periodo dei fiumi; sono venuti alla luce nella zona di Monteverde grazie a una frana, eppure costituiscono buona parte dei terreni su cui sono appoggiate le case e gli edifici di Roma.
fig. 6: schema del Vulcano Sabatino
Nella fase successiva, intorno a 500-600 mila anni fa, esplose un gigantesco vulcano a Nord di Roma, il vulcano dei monti Sabatini, i cui prodotti occupano ampiamente il suolo oggi ricoperto da Roma. Li troviamo da entrambi i lati del Tevere.
fig. 7: Lazio p. 232 fig. 9.3
Poco dopo, intorno a 560.000 anni fa (sono tempi ormai abbastanza vicini), esplose un altro vulcano, quello dei Colli Albani, il cui nome geologico è Vulcano Laziale; fu un'esplosione così imponente che i prodotti sono arrivati a congiungersi con quelli del Vulcano Sabatino, e hanno sbarrato il Tevere.
Da quel momento il Tevere smette di alimentare la foce di Anzio, ristagna, produce limi lacustri o palustri (tutto documentato in modo evidente dal materiale che si trova nel terreno), finché poi riesce ad aprirsi una nuova strada tra i due vulcani.
La lingua rossa indica una lunghissima colata di lava che dai Colli Albani è arrivata fin qui alla tomba di Cecilia Metella. E' ai margini della Caffarella e ne è un pezzo di storia, e la ritrovereno più avanti.
Siamo intorno a 500-400 mila anni fa: il Vulcano Laziale è andato avanti per 500.000 anni!
fig. 8: Scienze della Terra p.?
Qui siamo a una fase di particolare importanza: circa 100-80 mila anni fa avvenne l'ultima, forse la più grande, glaciazione a livello dell'intero pianeta. Su in alto, in bianco, vediamo le Alpi quasi interamente coperte di ghiacci.
Cosa ha significato tutto ciò? Enormi quantità di acqua bloccata sui continenti, il livello del mare che diminuisce (nella nostra area il mare è sceso di forse più di 110 metri), e la campagna romana che si è quindi allargata conquistando spazio.
Ma c'è un altro risultato: il livello del mare se si abbassa, tutti i fiumi devono scendere più in basso; quindi aumenta la loro energia e la loro capacità di erosione e cominciano a scavare con grande forza.
Andiamo sempre più vicino a Roma: nella campagna romana il Tevere ha scavato una valle amplissima, ed è la valle entro cui si trova oggi gran parte della città, da una parte il Gianicolo, dall'altra il Borghetto Flaminio e il Pincio; la valle era quindi larghissima, molto più di quanto non occupi oggi il Tevere.
Nel giro di alcune decine di migliaia di anni i ghiacci si sono sciolti, il livello del mare si è sollevato, i fiumi hanno perso questa energia e sono stati costretti, con un meccanismo ben conosciuto, a deporre sedimenti.
Vediamo (colore arancione con i puntini neri) il riempimento dell'antica valle, che vicino a S. Paolo era profonda fino a 80 metri; sono quindi decine di metri di sedimenti (sabbia, argilla, ghiaia), con sopra una fascia pianeggiante (colore verde), entro cui il Tevere ha ripreso a scavare i propri meandri delinenando quello che è il corso attuale, portando appresso una serie di affluenti.
Quindi abbiamo una torta della campagna romana, con sotto le argille e le sabbie che si erano deposte quando c'era il mare (colore più chiaro), poi la ghiaia che si era deposta mentre c'erano i fiumi, poi un grosso mantello di tufi, sia Albani che Sabatini, che ricopre tutta la campagna romana (colore marroncino). In questa torta abbiamo quindi delle valli dovute all'attività di erosione dei fiumi, che ha scavato tutti i depositi precedenti. Quando i ghiacciai si sono ritirati i fiumi hanno rideposto il loro materiale, il fondo di queste valli si è riempito, e infine abbiamo la fascia pianeggiante delle alluvioni più recenti.
fig. 10: foto del Tevere
Un esempio di quest'ultima fase è il Tevere poco a Nord di Roma, lungo la via Salaria; si vede la punta del Soratte, che è l'antica isola di cui abbiamo parlato; poi una fila di colline; poi c'è uno scalino e c'è questo ripiano verde che è la superficie della campagna romana.
Lo scalino è il margine della grande valle del Tevere, che a Nord di Roma era larga anche chilometri, mentre il ripiano verde è la superficie delle alluvioni, profonde decine e decine di metri, con cui il Tevere ha riempito successivamente il suo alveo.
Di queste alluvioni piatte, che si chiamano terrazzi, abbiamo un esempio anche nella Caffarella.
Successivamente il livello del mare si è nuovamente abbassato seppure di poco, mentre l'Appennino con l'intera catena montuosa del centro Italia si è sollevato; il fiume ha allora ripreso un po' di energia, e questa vastissima piana alluvionale è stata incisa in piccola parte.
Vediamo infatti che il Tevere non scorre più sulla sua vecchia piana alluvionale, ma si è scavato un nuovo alveo a qualche metro di profondità, dal quale in genere non esce se non in eventi straordinari. In questa nuova fisionomia, il fiume ha trovato l'attuale equilibrio.
fig. 11: Lazio p. 234 fig. 9.5
Vediamo l'aspetto fisico di Roma prima che cominciasse l'attività dell'uomo. Riconosciamo il corso del Tevere e l'ansa dell'isola Tiberina; poi il grande ripiano di tufo, su cui sorge la stazione Termini, che si sfrangia verso la valle del Tevere in lunghe dita; lì troviamo gli affluenti, che a forza di scavare il mantello di tufi hanno isolato dei piccoli rilievi che sono i Colli: il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino, poi altri più piccoli rimasti isolati dal tutto, come l'Aventino, il Palatino, il Campidoglio; c'è ancora, in alto, la grande palude.
Qui sotto, nell'angolo in basso (in grigio), troviamo la colata, ormai fredda ovviamente, che arriva alla tomba di Cecilia Metella e su cui corre la via Appia. La valle subito a destra della colata e che con una leggera curva si getta nel Tevere è la valle della Caffarella, che partecipa alla storia della campagna romana e contiene le tracce di buona parte di questi avvenimenti.
fig. 12: foto di Monte Testaccio
Monte Testaccio, che credo tutti conosceranno, è esempio di un'altra fase evolutiva.
L'evoluzione non è finita all'arrivo dell'uomo, ma è continuata perché l'uomo ci ha messo la sua parte; l'uomo è un fattore geologico efficientissimo, per quanto riguarda gli scavi, i trasporti e le modifiche della superficie.
Monte Testaccio è una nobile discarica, che però ha creato un monte dove prima non c'era nulla (nel disegno precedente, fra tanti altri colli, monte Testaccio non c'è).
Passiamo ora alla storia della campagna romana, prendendo in considerazione il Vulcano Laziale perché gran parte dei terreni della Caffarella sono legati alla sua attività.
Ho accennato ai due grandi vulcani che hanno deposto materiali e hanno deviato il Tevere.
fig. 13: schema del Lazio
In realtà tutta la costa tirrenica, intorno a 600 mila anni fa, viene interessata da un fortissimo vulcanismo. A Nord i vulcani Vulsini, poi il vulcano Sabatino, in mezzo il monte Cimino (un po' più antico), il lago di Vico (il vulcano Viceno), la Tolfa (che è un altro insieme di vulcani), poi i Colli Albani, e più a Sud, al confine tra il Lazio e la Campagna, il vulcano di Roccamontina, che fa da passaggio ai campi Flegrei e al Vesuvio: quindi una catena di vulcani che nasce dalla Toscana e arriva in Campania.
Vediamo adesso la storia dei Colli Albani.
fig. 14: Spiccioli di Natura p. 29 fig. ?
Vediamo l'evoluzione in quattro fasi del Vulcano Laziale.
La prima fase è un'esplosione gigantesca avvenuta 600-570 mila anni fa: dal vulcano, alimentato da un condotto centrale, è fuoriuscita una grande quantità di materiale.
Si tratta di un vulcano esplosivo come moltissimi sulla Terra, e sono pericolosissimi. Non così l'Etna, che è un vulcano bonaccione (di tipo effusivo), e avverte con tempo, ed emette della lava che permette ai turisti di seguirne il percorso.
Invece un vulcano esplosivo non dà preavviso, e quando esplode lo fa con un'energia tale che tutto quello che c'è nel raggio di decine di chilometri viene distrutto.
Da queste violentissime esplosioni si è formato nella prima fase un enorme cono vulcanico, alto almeno 2000 metri (il doppio dell'altezza attuale), che si fa fatica a riconoscere se non da qualche punto. Dal Gianicolo si intravede la forma conica dei Colli Albani: un cono schiacciato in quanto questi materiali si spargevano con grandissima energia ai lati della zona di emissione, allontanandosi molto; nonostante in quella fase siano stati emessi 200 chilometri cubi di materiale, si fa fatica a riconoscere il cono come tale. Adesso faccio vedere un esempio.
fig. 15: Eruzione del Mount St. Helens con vapori e ceneri del 7 aprile 1980
(immagine dal USGS/Cascades Volcano Observatory, Vancouver, Washington
L'esplosione del vulcano St. Helens, avvenuta nel 1980 negli Stati Uniti, ha avuto lo stesso meccanismo (più piccolo) dei nostri Colli Albani, e ci dà un'idea di quello che può succedere.
All'inizio il vulcano, a riposo, comincia a rigonfiarsi, quindi tutto un fianco del vulcano crolla per l'enorme pressione del gas sviluppato all'interno; quindi si vede in successione l'esplosione verso l'alto di un fumo scuro di ceneri e lapilli, mentre in altre zone un fumo più bianco indica vapore acqueo ad altissima temperatura.
Poi si vede un'immensa nuvola densissima perché il gas porta con sé una quantità enorme di materiale in sospensione: lava soffiata (ridotta quindi a polvere finissima), scorie, lapilli, ceneri, cristalli; tutto quello che era dentro il vulcano viene scaraventato fuori con energia elevatissima.
fig. 16: Eruzione del Mount St. Helens del 7 aprile 1980
(immagine dal USGS/Cascades Volcano Observatory, Vancouver, Washington
Nel confronto, sopra si vede il St. Helens che riposa, mentre sotto, dopo l'esplosione, non è rimasto un solo albero in piedi, sono stati tutti quanti troncati alla base (nelle immagini dall'alto sembra una scatola di fiammiferi rovesciata), spelati letteralmente e con i tronchi privi di qualsiasi apparato fogliare.
Questo perché la nuvola di cui parlavamo, densissima, è salita verso l'alto anche per 10-12 chilometri, poi ha perso energia per il raffreddamento dei gas, e questa enorme colonna è collassata verso il basso, per finire con lo spargersi radialmente in tutte le direzioni intorno alla zona da cui è stata sparata.
In questo processo la nube (che non è lava ma una specie di polvere, non caldissima ma pesante) raggiunge velocità di 120-150 km/h, e quando arriva in basso distrugge tutto quello che trova; la vegetazione viene completamente eliminata, il paesaggio è sconvolto, nuove valli sono scavate.
Il Vulcano Laziale ha avuto una potenza molto superiore a quella del monte St. Helens, e questa prima fase, che è avvenuta attraverso due esplosioni, ha sparso i suoi materiali su una distanza alla base di circa 80 chilometri, che va dalla costa fino ai piedi dei monti Tiburtini.
Vediamo quindi i materiali che si sono formati; quando tutto si tranquillizza i materiali si depongono, e prendono il nome di tufi, o piroclastiti.
Le piroclastiti
(per gentile concessione di Marco Placidi, c/o Roma sotterranea)
In certi casi, insieme a questi materiali viene emessa anche della vera e propria lava; sopra il bancone grigio è lava durissima, chiamata impropriamente basalto perché ne ha lo stesso colore, mentre in realtà è leucitite, una roccia ricca di un materiale che si chiama leucite, ricco di potassio che determina la ricchezza dei suoli che ne derivano.
Sotto la lava sono dei tufi rossi, letteralmente cotti quando la lava, a 900-1000 ¡C, è passata sopra bruciando quello che c'era sotto.
Nella fase successiva a questo lungo periodo di circa 250-300 mila anni di esplosioni continue, l'attività vulcanica si è esaurita, forse perché la camera magmatica si è svuotata: 200 chilometri cubi si sono infatti trasferiti dalle profondità fino alla superficie.
Allora l'intera sommità è crollata, e si è formata una vastissima depressione che si chiama caldera, che oggi sono i Pratoni del Vivaro.
Ma la storia non è finita; in una fase immediatamente successiva, dentro la caldera si forma un altro vulcano più piccolo, monte Cavo e i Campi di Annibale, che ha eruttato in tutto 5-6 chilometri cubi di materiale, quasi niente in confronto ai 200 chilometri cubi delle precedenti eruzioni. Tra i tufi il nuovo vulcano ha buttato fuori anche colate di lava tra cui la già ricordata colata di lava che arriva fino a Cecilia Metella, serpentone di 11-12 km perfettamente conservato.
In alto, dove finisce il serpentone (rosso) c'è la Caffarella, sull'estremità settentrionale di questa colata c'è la tomba di Cecilia Metella, sulla colata c'è una linea nera che è la via Appia Antica, che corre esattamente sulla colata, che è stata ampiamente utilizzata perché la leucitite veniva usata per il basolato e in seguito per i sampietrini.
L'ultima fase arriva fino a 50000 anni fa. In una serie di zone, periferiche rispetto al centro del vulcano originario, sono avvenute esplosioni violentissime dovute all'interazione tra acqua, di falda per esempio, e zone profonde molto calde, arroventate, a contatto col magma.
Le esplosioni si esauriscono molto rapidamente senza andare molto lontano, e lasciano delle cavità di grandi dimensioni imbutiformi, alcune delle quali sono state successivamente riempite dall'acqua e sono diventate laghi, il lago di Albano, il lago di Nemi, la conca di Ariccia che ha la stessa origine, Pantano Secco.
Il prodotto che viene buttato fuori è un tufo di colore grigio con tante macchiette chiare scure, conosciuto volgarmente come peperino.
fig. 18: foto del lago di Albano
Vediamo il lago di Albano con dietro Castelgandolfo, e in fondo all'orizzionte la campagna romana e il mare.
Questa morfologia caratteristica della Campagna Romana è dovuta alla storia geologica, in una continua successione di eventi.
fig. 19: foto dei Colli Albani da satellite in falsi colori
Osserviamo l'immagine dei Colli Albani da satellite in falsi colori. Il rosso intenso è una vegetazione fitta e in buone condizioni, Roma è in alto a sinistra, si intravedono le due ellissi dell'ippodromo di Capannelle. Si riconosce poi un grosso arco esterno, una specie di ferro di cavallo: a Sud, verso Velletri, abbiamo il monte Artemisio, mentre a Nord, vicino a Frascati, è il Tuscolo.
Dentro il ferro di cavallo, in una zona (rossa) piena di vegetazione, troviamo il cono centrale di monte Cavo, l'ultimo cratere rimasto attivo dei Colli Albani, chiuso in alto dalla conca dei Campi di Annibale.
Le macchie scure sono il lago di Albano e il lago di Nemi, e sono le traccie di alcune esplosioni eccentriche, oggi occupate, essendo cavità impermeabili, dall'acqua.
fig. 20: Lazio p. 102 fig. 1.6
Questa figura è lo spaccato dei Colli Albani; in profondità (colore rosa, poi azzurro e marroncino) sono le antiche rocce, sprofondate, dell'Appennino.
I Colli Albani hanno attraversato (il rosso indica la lava) tutto questo materiale, e sono esplosi all'esterno formando il mantello dei tufi, sottile rispetto al resto (qualche centinario di metri al massimo), più esile verso l'esterno, andando a ricoprire una storia antica di vecchi mari e vecchi fiumi.
Di tutto questo, sia come forme che come rocce, molto si riconosce nella Caffarella.
Insisto sul termine "forma" perché essa sfugge troppo facilmente, a vantaggio del paesaggio. Tuttavia colline, monti, valli sono il prodotto di attività fisiche (fiumi che scavano, gelo che interviene, sole che riscalda) in un equilibrio in continua evoluzione che ha le sue regole; noi possiamo accettarle, oppure contrastarle sopportandone le conseguenze non sempre positive.
fig. 21: foto del fondovalle della Caffarella
Questa è un'immagine della valle della Caffarella, proviamo a seguirne la storia dall'alto verso il basso.
Se noi scendiamo lungo un taglio come quello della valle vediamo in successione i diversi strati, andando indietro nel tempo.
Partendo dal ripiano, dove l'erosione ha scavato, si vedono affiorare gli ultimi prodotti della prima grande fase dell'attività del Vulcano Laziale, quella serie di grandi esplosioni che hanno formato un cono alto 2000 metri.
Scendendo dall'alto verso il basso ne vediamo almeno tre.
fig. 22: foto della scarpata con le piroclastiti
La prima è questa che forma la sommità di tutta la Caffarella, è un banco di alcuni metri di un materiale chiamato genericamente tufo, il cui nome specifico è tufo di Villa Senni (perché a Villa Senni è stato studiato in dettaglio), mentre un altro nome locale è tufo ad occhio di pesce.
fig. 23: foto particolare del tufo a occhio di pesce
Il materiale è fatto di scorie, cristalli di leucite, di mica, cristalli di anfiboli, tutti minerali che si trovano facilmente in queste zone; poi ci sono pezzettini di rocce strappate al sottosuolo dall'esplosione.
Verso destra numerosissimi cristalli di leucite, un silicato di potassio minerale, biancastro e dalla forma tondeggiante.
La roccia appare piena di queste macchie bianche circolari, da cui il nome locale, antichissimo, di tufo ad occhio di pesce.
fig. 24: Spiccioli di Natura foto n. 5
In alto vediamo il tufo a occhio di pesce, mentre sotto lo scalino abbiamo un tufo dal colore simile, ma assolutamente privo delle macchioline e più compatto. E' una cenere finissima diventata durissima, con un colore tipico, fulvo, che ricordava ai cavatori la criniera del leone, ed è rimasto nella tradizione geologica con il nome di tufo lionato.
Lo scalino si forma perché sono tufi di natura diversa e di diversa resistenza all'erosione.
fig. 25: foto particolare del tufo lionato
Il tufo lionato è un tufo compatto, usato per costruire mura al tempo dei Cesari, e ancora oggi in blocchetti per i muretti dei giardini.
fig. 26: foto delle buche superiori
Nel piano superiore vediamo molte buche, dovute all'attività antropica si è sviluppata ampiamente perché il materiale è buono da costruzione.
fig. 27: foto particolare delle pozzolane
Abbiamo visto in alto il tufo ad occhio di pesce, poi il grande banco di tufo lionato, ora, scendendo verso il fondo valle, incontriamo le pozzolane, di colore violaceo o grigiastro, utilizzate per le malte da costruzione.
Una grandissima eruzione, la più grossa tra quelle ricordate, ha sparso questi materiali su una distesa enorme.
Il sottosuolo di Roma è pieno di buche perché tufi e pozzolane venivano cavati e sfruttati.
fig. 28: foto del fondovalle verso via Macedonia
Questa è la parte più bassa della Caffarella, l'ultimo strato visibile della torta perché poi troviamo la valle dell'Almone con i suoi depositi.
Tuttavia in qualche punto sotto le pozzolane emergono altri tufi, i più antichi del vulcano laziale, e che spero riusciremo a recuperare per un eventuale itinerario che porti tutte le pagine del libro della storia vulcanica di Roma.
fig. 29: foto del versante sinistro
Dal fondo della Caffarella, pianeggiante, vediamo che il versante sinistro, con in fondo la tomba di Cecilia Metella, non è un declivio unico ma ha dei salti che dipendono dalla presenza di banchi più resistenti e meno resistenti.
Le pozzolane sono facilmente erodibili e si sgretolano, mentre il tufo lionato, più resistente, crea delle scarpatine, delle pareti.
Le forme quindi rivelano chiaramente il tipo di roccia che è sotto, e come si è impostata.
fig. 30: carta geologica della Caffarella
A proposito della tomba di Cecilia Metella, vediamo nella carta la valle della Caffarella, che è la linea arcuata celeste chiaro che in alto a sinistra intercetta la via Cristoforo Colombo, per poi finire verso il Tevere.
Alla estremità settentrionale vediamo una macchia rossa che corrisponde ad una colata di lava, che affiora sotto la tomba di Cecilia Metella; alla sua sinistra si vede la via Appia Antica che, dopo 11 km di percorso sulla colata di lava, verso Roma scende di livello, perché lì finisce la colata.
fig. 31: foto della base di Cecilia Metella
Sotto il monumento affiora un materiale grigiastro, che è la sommità della colata. Dietro il monumento c'è una vecchia cava, che ha 12-13 metri di spessore. Accanto una striscia di sampietrini è il prodotto di lavorazione della colata di lava.
fig. 32: foto del fondovalle Nord
Ora torniamo alla parte pianeggiante della valle della Caffarella, la cui storia è parallela a quella della grande piana alluvionale del Tevere.
Eppure come si può pensare che il fiumicello che è l'Almone possa aver scavato una valle larga un centinaio di metri?
fig. 33: foto dell'Almone
La valle si è creata quando il mare scese di livello e tutti i fiumi, il Tevere e i suoi affluenti, l'Almone, hanno cominciato a scavare profondamente.
Quando poi il Tevere ha riempito di alluvioni la sua valle, fino a creare la vastissima piana verde a Nord di Roma, anche l'Almone ha riempito la sua valle, creando la zona piatta che si vede oggi.
In seguito il Tevere si è riscavato la valle attuale, piccola in confronto a quella precedente, e così l'Almone si è riscavato il suo piccolo solco all'interno delle alluvioni, e oggi corre irregimentato dentro un nuovo alveo che rappresenta un nuovo equilibrio.
L'uomo può intervenire in questo equilibrio alterando le condizioni esterne, ponendo dei vincoli; allora gli elementi naturali reagiscono per adattarsi in un equilibrio continuamente rinnovato.
fig. 34: foto della discarica sulla sorgente della marrana
Questa discarica è uno degli elementi antropici che alterano l'ambiente. E c'è un altro elemento di cui bisogna tener conto.
fig. 35: foto delle grotte (esterno)
Vediamo l'ingresso di una ex cava, ora è adibita a fungaia.
fig. 36: foto delle grotte (interno)
Le cavità sono punti deboli in quanto le pozzolane inferiori vengono erose e scivolano verso il fondovalle, mentre il tufo superiore crolla.
Per riassumere gli elementi antropici che alterano l'ambiente abbiamo quindi le discariche, le cave trasformate in fungaie, e anche il conseguente inquinamento della falda.
E' difficile pensare di tornare ad una Caffarella come quando fuori porta c'era soltanto il verde; la città avanza, assedia e insidia, come dicevamo già all'altro congresso (La valle della Caffarella, ipotesi di un parco, Roma 1986).
Eppure rimane un cuneo verde, e credo che sarebbe veramente una grandissima occasione poterlo trasformare in un parco; sarebbe anche un esempio unico di parco integrato in cui sia possibile osservare gli aspetti biologici (gli animali, le piante), ma anche gli aspetti più strettamente fisici, per provocare gli stimoli e le riflessioni su un ambiente che è qualcosa di comunque integrato.
Non si può pensare a animali e piante da una parte e al suolo da un'altra: sono elementi strettamente legati tra loro.
Nel contempo, come qualcuno ha detto e io sono pronto a sottoscriverlo, noi abbiamo questo pianeta come in prestito dai nostri nipoti; lo trovo molto giusto, e allora direi che con questi piccoli atti diamo un segnale, cominciamo a mostrare almeno l'intenzione di voler saldare il debito.
Grazie.
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